Le Novelle per un anno sono una raccolta di novelle scritte da Luigi Pirandello, pubblicata in 15 volumi editi tra il 1922 e il 1937.

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La produzione novellistica accompagna tutta la vita di Pirandello, dalla sua adolescenza sino alla sua morte. La prima novella è un bozzetto siciliano scritto nel 1884, titolato “La Capannetta” mentre l’ultima novella, uscita nel 1936 sul “Corriere della Sera”, il giorno prima della morte, è “Effetti di un sogno interrotto”.
Nel 1922, Pirandello decide di progettare un ciclo unico che raccolga ben 365 novelle in 15 libri, sotto il titolo unificante di “Novelle per un anno”, inserendosi nel solco programmatico del “Decameron” e de “Le mille e una notte”, in cui un numero fisso di novelle viene raccontato in un preciso tempo, quasi come un rituale magico ed affabulatorio.
Le quindici raccolte uscite in quel periodo non sono una semplice ristampa di quanto pubblicato in precedenza, né un loro semplice riordino con qualche integrazione: Pirandello, da buon umorista, si è divertito a rimescolare le carte, a smembrare i libri vecchi ed a confonderli, a cambiare i titoli, a togliere alcune novelle dalle raccolte e ad inserirne altre mai pubblicate se non sui quotidiani, volendo offrire qualcosa di sempre nuovo al lettore.
Infatti la poetica pirandelliana prevede che l’autenticità e la verità esistano solo nel caos multiforme del flusso della vita, l’unico stadio in cui possono esistere la libertà e la realtà e quindi si assiste ad una volontaria scomposizione nella disposizione dei racconti, fatta di novelle giustapposte, senza una cornice, senza un filo logico che le unisca, in maniera irrazionale.
Inoltre, molte delle novelle sono state trasposte in opere teatrali, con i dovuti adattamenti da parte dell’autore.
È il caso, per esempio, di due delle novelle presentate in questo ciclo di letture: “Pensaci, Giacomino!” e “La patente”.

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Di seguito una breve trama delle novelle dalle quali sono tratte le letture del Prof. Luca Franchelli:

Mercoledì 5 ottobre 2016:

LA PATENTE

Protagonista della novella è Rosario Chiarchiaro, un uomo scacciato dal banco dei pegni per essere considerato uno iettatore. I superstiziosi temono talmente gli influssi della sua malasorte  che, al suo passaggio, fanno i più svariati segni scaramantici: toccano il ferro, fanno il gesto delle corna.
Agli occhi del giudice D’Andrea sembra che Chiarchiaro abbia querelato due giovani che in sua presenza hanno fatto “gli scongiuri di rito”: ma non è così.
Nell’ufficio del giudice, Chiarchiaro, arriva vestito come un perfetto menagramo e dichiara che non ha nessuna intenzione di far condannare i due giovani: il suo obiettivo è invece quello di ottenere una patente di iettatore con cui pretendere di essere pagato per evitare i suoi malefici.
Infatti Chiarchiaro, stanco della schifosa umanità, vuole ora vendicarsi sfruttando la superstizione popolare imponendo una tassa che nessuno al suo passaggio rifiuterà di pagare.

L’ERESIA CATARA

In questa novella, si parla di un professore di nome Bernardino Lamis, ordinario di storia delle religioni, un corso  seguito solo da due studenti.
Un giorno Lamis annuncia ai suoi due fedelissimi che nella prossima lezione avrebbe parlato dell’eresia catara, sulla quale il professore aveva scritto due volumi che però non furono tenuti in considerazione nonostante la loro importanza, mentre fu molto elogiato dalla critica, anche italiana, lo studio sui catari del tedesco von Grabber.
Lamis, rammaricato di tutto questo, prepara una lezione sul’eresia catara carico di rabbia e passione per l’argomento.
Il giorno della lezione i suoi due fedeli studenti non riescono ad andare alla lezione a causa del bruttissimo temporale che è in corso quel giorno.
Lamis giunto nella sua aula, inizia la lezione meravigliato del fatto che ci fosse così tanta gente ad ascoltare la spiegazione. Ma il professore, che ormai ci vedeva veramente poco, non si era accorto che quelli a cui stava parlando non erano alunni, bensì cappotti appesi lì nella sua aula per farli asciugare dall’acqua.

Mercoledì 12 ottobre 2016

PENSACI, GIACOMINO!

Il professor Toti è un insegnante ginnasiale di paese ormai vecchio che prende per moglie la giovanissima Lillina, incinta di un giovane del paese, Giacomino.
Il professore riesce ad imporre agli altri questo ménage à trois: secondo lui, infatti, l’importanza degli scopi che si prefigge, garantire una pensione alla giovane moglie, è più importante della stupidità della gente, sempre pronta a malignare per quelle che ritiene stranezze e comportamenti fuori dal normale.
Ad intorbidire la vicenda intervengono le lamentele della gente del posto, sempre più scandalizzata. Inoltre Toti, Lillina e Giacomino vengono messi sotto pressione anche dai genitori di lei che per la vergogna non possono più farsi vedere in giro.
In questa situazione, comicamente patetica, Giacomino è sul punto di arrendersi e di accettare il fidanzamento con una ragazza, per rifarsi una vita così come vorrebbe la sorella Rosaria,  sostenuta anche dal prete Landolina che, per togliere Giacomino da questa scandalosa situazione, gli consiglia di abbandonare suo figlio e la sua compagna.
In un drammatico scontro, Toti mette a tacere padre Landolina facendo capire a Giacomino che deve prendersi le sue responsabilità: anche se è un’impresa quasi impossibile andare avanti con la farsa del ménage à trois, ormai è troppo tardi per tirarsi indietro.

Mercoledì 19 ottobre 2016

LA VESTE LUNGA

La novella narra dell’adolescenza , in una cornice simbolica, nella quale vengono dipinte le ansie e le preoccupazioni di Didì, una ragazza sedicenne che si accorge che la bella età della giovinezza sta ormai per concludersi, per lasciar inesorabilmente spazio a un futuro e incerto.
Il padre di Didì è amministratore del patrimonio dei marchesi Nigrenti e vuole fare sposare la propria figlia al marchese Andrea, al quale sarebbe andata la maggior parte dell’eredità.
In treno, con destinazione Zùnica, la città in cui risiedono i marchesi, la giovane è agghindata nella sua veste lunga, veste da vera signora, ma Didì sente solo la sua anima impaurita di bambina, nascosta in un angolo della sua personalità, ma ancora ben viva.
Con questa inquietudine, Didì, senza affatto sentirsi padrona delle sue azioni, ingurgita una fiala intera di un farmaco per il cuore prescritto al padre, che siede vicino a lei ignaro e sprofondato nel suo sonno.
La novella, fortemente allegorica,  si conclude con la descrizione dell’arrivo in città di una Didì morta, con la sua veste lunga ed austera, a rappresentare il seppellimento della parte spontanea e vitale in vista dell’ingresso in una vita fatta di apparenze e di forme vuote.

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